10 ago 2013

Scalate sugli alberi (Estatubez)

Son cresciuto al Villaggio Nullo Baldini, un bel quartiere di periferia tutto di condomini di tre piani / 6 famiglie di qua e di là da via Agro Pontino; si chiama Pontino perché siamo l’unica strada a Ravenna con un ponte sopra! L’unica! Un ponte per pedoni, un cavalcavia pedonale, un ponticello, un pontino, appunto. C’è anche il bar Pontino, giù in fondo, anche se in realtà è in via Santucci. Poi è saltato fuori che l’Agro Pontino era quel posto vicino a Roma bonificato dagli Scariolanti, partiti nel 1884 da Ravenna con Nullo Baldini, proprio lui. Ma comunque io l’Agro Pontino in Lazio non l’ho mai visto e invece il ponte c’è ancora e dovreste venire a vederlo; quando nevica si possono organizzare delle gare di bob, avendo i bob, o se no van bene anche slitte o al limite cartoni infilati dentro ad un sacco di plastica, c’è da schiantarsi dal ridere o contro un albero.

A proposito di alberi ! Al villaggio c’erano quasi più alberi che bambini, e che alberi! Altissimi, specie quando ero ancora piccolo. Nelle strade intorno, fuori dal Villaggio, al massimo c'erano degli alberelli dentro a dei giardinetti davanti a delle casette, ma noi invece avevamo dei prati immensi, da giocarci a calcio e a pallavolo contemporaneamente. Vedi che l'unione fa la forza ? Avevamo addirittura anche un giardiniere che ci teneva dietro, come nei giardini dei ricconi che si vedevano in televisione, falciava e potava di tutto e ci teneva che non rovinassimo niente. Comunque i giardini erano per giocare, non da “guardare e non toccare”, niente aiuole fiorite, solo un bel prato robusto e arbusti per nascondersi. E alberi, alberi per giocarci. Per scalarli, ad esempio, purché non ci fosse il giardiniere in vista, o qualche pensionato suo alleato, che se no era una tragedia e avrebbero fatto la spia all’Amministratore eccetera eccetera. Ma gli alberi erano tanti e gli spioni pochi, eh eh.

Mi ricordo che  spesso gironzolavo in bici e quando incontravo un bell'albero potevo decidere di andarci su, se ne avevo voglia.

I primi rami erano sempre a non meno di due metri da terra, quindi per prima cosa mi avvicinavo lentamente con la bici e frenando mi appoggiavo con una spalla al tronco; poi, senza mettere i piedi a terra, cioè senza scendere dalla bici, montavo coi piedi sul cannone, abbracciando il tronco, e infine mi raddrizzavo e mi attaccavo con le mani al ramo più grosso che riuscivo a raggiungere. Passare direttamente dalla bici all'albero era un rituale importante, che avrebbe favorito una bella salita senza incidenti.

Se c'erano due rami disponibili allora era facile: afferratili saldamente, un ramo per mano, portavo i piedi uno dietro l'altro sul tronco e ... camminavo in su fino a rovesciarmi a testa in giù, con le ginocchia più in alto delle mani. A quel punto piegavo le gambe e le mettevo sopra e attorno ai due rami di prima, restandovi praticamente appeso; dopo di che tiravo su il busto a forza di braccia e muscoli addominali. Alla fine mi mettevo in piedi sui rami e il primo passo era fatto. Con un ramo solo, o con rami troppo grossi per essere stretti con una mano sola, allora la salita un po' più complicata ma non meno fluida e veloce.

Gli alberi erano quasi sempre pioppi; c'era anche qualche ippocastano; veramente c'erano anche dei salici piangenti, ma non erano scalabili: non avevano rami bassi oppure se li avevano l'albero finiva subito e non c'era gusto. I pioppi invece avevano la prima biforcazione all'altezza del pavimento del primo piano di una casa e poi altre due, tre o quattro biforcazioni distanziate tra loro due metri o giù di lì; dopo di che il tronco e i rami diventavano troppo sottili e i rischi di rottura troppo grossi. Un eucalipto è l'unico che mi ha fregato: era basso, tre metri in tutto, bello pieno di foglie, coi primi rami a un metro e mezzo da terra, rami belli grossi, mi appendo e faccio come per buttare i piedi in su, camminando lungo il tronco. TRACK ! Il ramo è venuto via di netto dal tronco, senza preavviso, e io sono caduto giù che ero orizzontale, dando una schienata per terra che mi ha lasciato senza fiato. E' che ero in vacanza nel Gargano coi miei genitori, non conoscevo la flora locale e mi sono fidato. Ma non la considero una caduta da un albero perché in effetti non ero ancora salito. Così la mia carriera è immacolata.

Mi piaceva andare su da solo e starmene rilassato, possibilmente seduto su una biforcazione, ma anche in piedi non era un problema, e abbracciarlo, l'albero, non strettamente, ma gentilmente, con il petto appoggiato al tronco, e una spalla, e la testa, cioè un'orecchio; sì, con un orecchio appoggiato al tronco e gli occhi chiusi, a sentire il fuori dell'albero con l'altro orecchio, il vento, le foglie che stormiscono e quelle cose poetiche lì. E ondeggiare con tutto l'albero. E pensare a niente. Neanche un nome, o un avverbio e meno che mai un verbo. Solo ripensare tutti i rumori che faceva l'albero. Non i nomi dei rumori, tipo stormire, scricchiolare, solo i rumori, direttamente i rumori. Qualche volta stavo attento anche agli odori, ma di meno, perché erano sempre quelli e non erano un granché. Poi aprivo gli occhi e mi divertivo a stupirmi di fronte all'insolita visione. Spesso ero all'altezza del terzo piano di una casa, a oltre 10 metri da terra, mica poco, e la bici là sotto era un giocattolino ! E allora mi stringevo un po' di più al tronco, rabbrividendo. Delle volte me ne stavo lì a farmi sorprendere da strani pensieri; come quella storia della ragazzina bionda dagli occhi azzurri (veramente!) che faceva le elementari nella classe prima della mia, mai scambiata una parola, eppure abitavamo vicini, io tornavo a casa da scuola in bici e lei sulla Bianchina di suo babbo. Io partivo a razzo e lei mi superava dopo un po'. E tutte le volte si voltava dalla mia parte e ... mi sorrideva. Mi guardava negli occhi per un attimo, e sorrideva. Cioè non è che arrivasse sorridendo e mi guardasse, no no: prima arrivava, poi si voltava verso di me, mi abbagliava per un attimo con quei suoi occhi chiari e solo dopo sorrideva; vuoi proprio che fosse suo babbo le raccontava una storiella sempre in quel preciso momento del sorpasso ? Difficile ... quindi sorrideva a me. Elementare, Watson. Sorrideva a me. A quel punto me ne andavo avanti in folle per metri e metri senza più pedalare, senza più respirare, senza più chiederemi perchè diavolo mi sorridesse. Le femmine hanno questo potere di semplificare, perché le cose te le fanno sentire direttamente, senza parole di mezzo. E io me ne stavo al sicuro sull'albero a covare queste nuove sensazioni. Sperando che lei passasse e mi vedesse. Mai successo. Avrei costruito una casa sull'albero per lei, ma vedi, sto già complicando tutto.

A volte pensavo di essere una fogliolina come le altre, e stavo lì a fare la mia parte di fruscio, vuoto di pensieri e pieno di rumori e odori, contento di essere una cosa piccola, che male può mai sentire una cosa così piccola come una fogliolina ? Così lenivo le pene del mio giovane cuore. E non avevo ancora letto neanche un libro che contenesse la parola "Zen" nel titolo !

Poi ci sono state le scalate storiche, quando abbiamo "conquistato" le cime degli alberi per la prima volta; deve essere successo tutto in una estate, un anno eravamo troppo piccoli per farcela e l'anno dopo li avevamo fatti fuori tutti; lì era un lavoro di squadra, era un discutere e mettersi d'accordo, prima io sì ma dopo prima io, e poi provare e riprovare, una biforcazione per volta, senza rischi. E mai che uno di noi sia caduto, si sia fatto male. Avevamo la testa sulla spalle e attendevamo al nostro dovere di scalatori con dedizione e determinazione. E gli alberi ci ripagavano concedendoci le loro vette. Gli angeli custodi facevano lo straordinario.

Ricordo un pioppo vicino al cavalcavia pedonale, l'avevo battezzato K13, arrivava al quinto piano, non scherzo. Le prime tre biforcazioni erano venute via facili, ma la quarta sembrava impossibile: era l'ultima ed era troppo distante dalla precedente; in piedi sulla terza non si arrivava e prenderne un ramo con le mani. Eravamo in tre che ci provavamo; ogni tanto lasciavamo perdere e per giorni stavamo alla larga, ma poi ci ritrovavamo alla sua base a guardare in su. Alla fine dell'estate ci provammo un'ultima volta; io avevo addirittura realizzato una targa commemorativa in legno compensato a forma di foglia, da inchiodare lassù, c'erano scritti i nostri nomi e uno spazio vuoto per la data della conquista. Andammo su tutti e tre insieme e ci appollaiammo sulla terza biforcazione; facemmo qualche prova ma dovemmo constatare che era impossibile aiutarci l'un l'altro, tipo uno sta in piedi appoggiato di schiena al tronco e fa scaletta (cioè intreccia le mani a formare un gradino) all'altro, non c'era lo spazio ed era comunque troppo pericoloso per quello di schiena, che doveva mollare tutti gli appigli.

Usare corde o altri artifici era fuori discussione, non era nel nostro stile, un purismo che tollerava a mala pena la bici come lancio iniziale. Quindi la vetta sembrava proprio inviolabile. Poi Daniele fece una cosa nuova, pericolosa e mai tentata prima: stringendo bene il tronco con tutte e le due mani, cominciò a spostare i piedi sempre più all'esterno sul suo ramo; in pratica si allontanava con tutto il corpo dal tronco, restandovi avvinghiato solo con le mani, in una situazione instabile (e pericolosa) perché ancorata su tre punti allineati, in precario equilibrio. Non solo: più ti allontani dall'inizio del ramo, più fai leva e rischi di romperlo. Ma ecco la sua intuizione: il ramo su cui si muoveva coi piedi era fortemente inclinato e dunque più si allontanava orizzontalmente dal tronco, più saliva, avvicinandosi alla quarta biforcazione. Ad un certo punto mollò il tronco con una mano, la portò il più in alto possibile e afferrò il ramo della quarta biforcazione ! Da lì issarsi fu semplice.

La cima era sua. Si guardò lentamente intorno come a registrare nella sua mente l'evento per immagini, che la semplice nozione di avercela fatta era troppo poco, poi guardò noi con un sorriso abbozzato, e alla fine si guardò i piedi, rabbuiato. Scendere dalla quarta biforcazione infatti gli riuscì un po' goffo: dovette scivolare sul tronco a gambe strette, un espediente stilisticamente non proprio edificante. A turno poi siamo saliti tutti. Ma era un sistema pericoloso, l'abbiam fatto solo quella volta e solo perché era la prima volta del K13. La foglia l'ho inchiodata il giorno dopo. Forse era l'11 settembre, o giù di lì.

1 commento:

PeSte ha detto...

che hai fatto stamattina?... mi son svegliata presto per il caldo e alle 8 meno 10 ho fatto un giro al Pontino!! :D grazie per questo bel risveglio Angelo...