5 apr 2008

L'hobby della fotografia (3)

La Paterson permetteva di affrancarsi da questo perverso meccanismo di sfuttamento, perchè dava la possibilità di svilupparsi in casa le proprie pellicole. Qui si parla di bianco e nero; per arrivare al colore bisogna aspettare ... di andare all'università. Veramente !

Allora la Paterson è un "tank", cioè un barattolo di plastica nera di 10 / 15 centimetri di diametro (e anche di altezza) con un coperchio a vite di foggia speciale (a più piani) che permette di versare dentro dei liquidi, senza che la luce (che viaggia in linea retta) possa infiltrarsi.

Il tank contiene una doppia spirale (pensate a due zampironi uno sopra l'altro distanziati di 3 o 4 centimetri) che, con un ingegnoso sistema meccanico, permette di inserire una pellicola tra le sue spire, in modo che le pareti della pellicola così arrotolata non si possano toccare fra loro e siano invece perfettamente ed uniformemente lambite dai liquidi di sviluppo.


Questo diceva "Progresso Fotografico" e questo confermò il negoziante quando andai in centro per l'acquisto. La Paterson costò mi sembra 5 mila lire, tipo 20 o 30 Euro di adesso. Era in una bella scatola di cartone, polverosa, non è che ne vendessero molte, e questo mi rese molto orgoglioso. Il fotografo ammiccando mi regalò uno spezzone di pellicola da buttare, perchè mi allenassi a caricarla. Non vi ho detto che la pellicola andava caricata nella Paterson nel buio più assoluto ? Non la penombra del borsone, proprio un buio totale, da vertigine; di qui la necessità di allenarsi, prima alla luce, poi chiudendo gli occhi e infine al buio, con una pellicola usata, prima di passare a quella vera.

Forse non vi ho detto nemmeno che, prima di caricarla nella Paterson, la pellicola andava estratta dal rullino, sempre nel buio assoluto; il rullino era un cilindretto metallico con una fessura feltrata, da cui usciva la famosa linguetta della pellicola, con due specie di tappi a corona, sopra e sotto, a chiudere fuori la luce. Per estratte la pellicola, una volta che la linguetta era rientrata, bisognava letteralmente sbattere il cilindretto sul tavolo fino a far volar via uno dei tappi, poi la pellicola, avvolta sul suo rocchetto si poteva sfilare e trasferire nella spirale della Paterson, avendo cura di toccarla solo sui bordi, mai sulle pareti, altrimenti il sebo della pelle delle dita avrebbe inesorabilmente lasciato traccia e rovinato lo sviluppo. No, non usavamo guanti di lattice: la toccavamo come si doveva, solo sui bordi. Era bello trovarla nel buio, dove doveva essere.

Mi allenai a lungo. Si può dire che in capo a una settimana caricavo la pellicola ... a occhi chiusi. Feci provare anche gli altri del gruppo: nessuno doveva essere insostituibile. Alessando disse che forse si sarebbe comprato una Paterson anche lui, forse. Così ne avremmo avuta anche una di scorta, caso mai ce ne fosse stato bisogno. Gli dissi che c'era anche un modello più economico, da una sola pellicola per volta (la mia ne poteva imbarcare due in un colpo, una sopra e una sotto), ma soprattutto dissi che ora urgevano gli acidi per lo sviluppo e bisognava far colletta. Così rimasi ancora per un po' il monopolista della Paterson. Tornammo in centro a caccia di questi ulteriori fattori della produzione.

Sempre per i digital kids: la pellicola "impressionata" non si distingue a vista da una pellicola "vergine": entrambe sono striscie di plastica di un grigiolino opaco (sarebbe la gelatina fotosensibile spalmata sulla pellicola), tutte bucherellate vicino ai bordi; per tirar fuori l'immagine latente non c'è cavo USB o blueTooth di sorta: bisogna trattare chimicamente la pellicola ovvero "sviluppare" l'immagine latente e quindi "fissarla". Ebbene sì, ragazzi: si inquina l'ambiente.
Nello sviluppo, le parti della gelatina che hanno preso luce diventano nere e in qualche modo restano attaccate alla pellicola stessa; le parti che non hanno preso luce, invece, si sciolgono e quindi liberano la pellicola sottostante (che in realtà è trasparente). Le parti che hanno preso "poca" luce, si comportano in maniera intermedia, un' po' si anneriscono e un po' si staccano, e insomma in questo modo salta fuori l'immagine latente, in negativo, con tutte le sfumature del caso. Lo sviluppo deve durare un certo tempo che è determinato dal produttore dell'acido; la temperatura del bagno è molto importante: più è caldo più il tempo deve diminuire; sopra una certa temperatura si può danneggiare irrimediabilmente la pellicola; sotto una certa temperatura lo sviluppo non avviene, nemmeno prolungando il bagno a dismisura. Durante lo sviluppo il bagno deve essere periodicamente agitato, poichè quello a contatto con la pellicola si consuma e quindi deve essere sostituito da bagno fresco.

Questo diceva "Progresso Fotografico" e questo confermò il negoziante: il brav'uomo riuscì a piazzarci una confezione di acido universale della Ilford, buono sia per lo sviluppo delle pellicole che per quello delle stampe su carta (processo che avremmo affrontato solo in seguito); era un flacone da ... 100 ml a forma di cono, col tappo rosso, graduato all'interno per farci le dosi. Anche qui la polvere sulla confezione testimoniava l'esclusività del nostro arduo percorso (non avremmo mai più usato il PQ Universal della Ilford, un acido realmente dozzinale, senza personalità). Ce n'era di meno, di polvere, sulla confezione del fissaggio, sempre a cono ma col tappo verde: si vede che questo andava di più. Il fissaggio serve a far indurire la gelatina sviluppata che è rimasta attaccata alla pellicola; dopo lo sviluppo, si lava la pellicola abbondantemente per un minuto con l'acqua corrente, sempre al buio dentro la Paterson, e poi si tratta con questo fissaggio per qualche minuto; alla fine altri cinque minuti o più di lavaggio con acqua corrente per eliminare tutti i residui chimici che col tempo potrebbero portare al degrado fisico della pellicola.
il bravo negoziante ci piazzò anche, veramente per poche lire, una confezione di carta fotografica 7 x 10 cm, 100 fogli, scaduti. Buoni per le prove, disse, se no li butto via.

Il giorno dopo, con una simpatica nebbiolina che sfumava tutto e la luce ormai morente del pomeriggio tardo autunnale, scattammo le foto residue con la mia istamatic (bisogna finirle, ricordate) e ci trasferimmo nello sgabuzzino della casa di Franco per la prima vera sessione di camera oscura.

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